Mi chiamo Marta e ho 18 anni.

Forse nessuno te l’ha ancora detto, o forse sei abbastanza grande da averlo dimenticato, ma essere un’adolescente è come essere imprigionati in una giostra senza fine, un vortice che ti fa oscillare su e giù, avanti e indietro, come in una centrifuga di una lavatrice. Eppure, dalla vita spesso emergiamo ancora bagnati.

Avevo trascorso gli ultimi anni della mia vita nell’angoscia costante di essere giudicata dai miei compagni di classe.


Non possedevo magliette di Gucci o profumo di Ducci da sfoggiare, non mi sentivo particolarmente attraente e la mia personalità era permeata da profonda insicurezza.


Ero in costante ricerca di cose e denaro per acquistare ciò che gli altri possedevano, per stare al passo con la moda e non sentirmi esclusa.

In qualche modo ero diventata sia predatrice che vittima del consumismo.


I miei genitori, preoccupati per la mio statomentale, decisero di mandarmi a trascorrere qualche giorno dai miei nonni, a Verdalia, un minuscolo paesino rurale abitato da appena cento anime, di cui novantanove avevano superato i sessant’anni. Era così isolato che persino la connessione internet risultava impossibile.



Non volevo andare, convinta che mi sarei annoiata a morte, aumentando così la mia depressione e il senso di inadeguatezza.


Ma Verdalia mi ha salvato.

Il secondo giorno, dopo aver passato ore chiuse nella mia camera a fissare il soffitto, decisi di esplorare il paesino.


Camminando tra i suoni della natura, mi accorsi di un anziano signore che, seduto sulla soglia di casa, mi osservava con uno sguardo dolce e gentile.



“Sei Marta, la nipote dei Cantagalli, giusto?” mi disse quell’uomo con sguardo vivace.

“Vieni, ti offro una tazza di tè.”


Così conobbi Mario.


Mi accolse nella sua casa e durante la nostra conversazione divenne chiaro che Mario era profondamente radicato in quel luogo da tutta la vita.




Forse perché mi ispirava fiducia come un nonno, o forse perché avevo bisogno di condividere le mie paure, gli confidai le mie difficoltà. Con un sorriso enigmatico, mi disse che dovevo imparare l’arte della leggerezza.


Mi mostrò la sua casa e come viveva con semplicità. Ogni oggetto aveva uno scopo preciso, niente era superfluo.


Mi insegnò che liberarsi del superfluo non solo alleggerisce il peso fisico, ma libera anche la mente da preoccupazioni inutili.


Mi spiegò che ridurre gli acquisti impulsivi e concentrarsi sulle necessità essenziali può generare meno sprechi.


Mi fece capire che la felicità si nasconde nelle piccole cose e che la cultura del consumo consapevole non solo ci rende più rispettosi dell’ambiente, ma ci aiuta anche a vivere meglio, facendoci comprendere che le cose importanti della vita non risiedono nel possesso di beni materiali.


E mi insegnò che l’apprezzamento degli altri non dipende da ciò che si possiede, ma da chi si è veramente e come si sceglie di vivere

Gruppo 5

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